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Diecimila diari, un milione di storie, un solo archivio

Lo storico schedario della memoria di Pieve Santo Stefano ha raggiunto il record di autori singoli nella sua collezione

Nel 40° anniversario della sua fondazione, l’archivio diaristico di Pieve Santo Stefano aggiunge un’altra pagina importante alla sua storia: il record di 10mila autori singoli conservati nella propria raccolta.

Il museo, fondato nel 1984 per volere del giornalista e scrittore Saverio Tutino, è oggi un punto di riferimento in tutta Italia per ricercatori, studenti, memorialisti e semplici curiosi spettatori. Sito in piazza Amintore Fanfani 14, nel cuore del Comune di Pieve, l’istituito si distacca molto dallo stereotipo di archivio incolore e asettico che potremmo avere. Non è una biblioteca, ma neanche un magazzino: è un luogo unico in cui tra i suoi corridoi si coltiva la memoria, e, non a caso, il suo fondatore lo aveva ribattezzato “il vivaio”.

Da anni la raccolta, la catalogazione e l’esposizione dei diari avvengono tra l’archivio e il vicino Piccolo Museo, appena 80 metri quadrati di superficie. Oggi però si aggiunge anche tutta la parte digitale, da cui ognuno di noi può fruire il lavoro di salvataggio della memoria che prosegue da ben otto lustri. Abbiamo incontrato Natalia Cangi, storica direttrice organizzativa dell’archivio e membro del comitato editoriale, per farci raccontare la sua storia con le storie.

Natalia Cangi
Natalia Cangi

Natalia, cosa s’intende per “Diecimila storie”? Sono episodi, diari fisici, autori?

Capire questo numero è importante. Se fossero, ad esempio, diecimila fogli di carta non ne parleremmo. Qui si tratta di oltre diecimila autori unici che raccontano un pezzo della propria vita, che può essere lungo qualche riga come centinaia di pagine. Qui la scrittura di sé viene accolta, non si dà un giudizio di merito, non si contano le battute: chiunque arriva con un pezzo della propria vita ha il permesso di lasciarlo qui. In questo luogo avviene una continua valorizzazione: al Piccolo Museo, dove alcune di queste store vengono periodicamente esposte al pubblico, poi ci sono i libri che vengono pubblicati, il Premio che si tiene annualmente, le ricerche che vengono pubblicate e così via. Nel momento in cui si stringe il patto di fiducia con l’archivio, si sa che la propria storia è inserita in un vivaio virtuoso in cui le testimonianze continuano ad avere non una, ma molte altre vite.

Diecimila diari è un numero imponente. Come si possono quantificare in uno spazio fisico?

A livello spaziale sono più di 500 metri lineari. Poi come vengono occupati può essere variabile, ad esempio nella stanza a fianco abbiamo cinque scatole di plexiglass dove una persona ha conferito circa 250 agende. Noi contiamo una persona, ma il numero di agende è impossibile da quantificare. Questo fatto porta problemi di spazio, ma per fortuna il nostro archivio continua a crescere perché le persone continuano ad avere fiducia in questo luogo. La considerano la casa che dà alloggio a una storia che ci è molto cara, che sia quella di un genitore, di un coniuge, di un amico.

Come è cambiato l’archivio in tutti questi anni?

In moltissimi modi, soprattutto dal punto di vista tecnologico. Sono 12 anni che ci confrontiamo con le nuove tecnologie e oggi possiamo dire di aver digitalizzato tutto l’archivio. Alla fine di dicembre del 2023 avevamo 996mila file, l’equivalente di quasi 10 terabyte di memoria. Tutti costituiti dalla digitalizzazione dei diari. Abbiamo fatto un investimento su questo fronte e cerchiamo di sfruttare anche le piattaforme che la rete ci mette a disposizione. In questo periodo, lo scorso anno abbiamo lanciato il sito idiaridipieve.it: un portale che ci rappresenta molto perché racconta i diari, li fa parlare, e lo fa in un modo anche non limitato a poche migliaia di battute, ma complessivamente a ogni storia viene dedicato un massimo di 75mila caratteri. Stiamo cercando di proiettarci sempre di più verso il pubblico, anche quello dei non addetti ai lavori.

Oggi si parla molto dell’accesso all’informazione. I musei dovrebbero provvedere alla digitalizzazione dei propri documenti, ma molti sono indietro.

Il portale per noi non è un punto di arrivo, perché continueremo a svilupparlo, vogliamo inserire una sezione interamente dedicata agli insegnanti. Ma navigandoci si possono trovare molte novità: il 26 novembre siamo usciti con il diario del mese. Abbiamo pubblicato la storia di Maddalena M., tratta dal nostro archivio. Ogni storia è presentata con una sinossi, un contributo (in questo caso di Saverio Tutino) e poi si possono leggere gli estratti. Questa è la proiezione di un archivio che dalla carta va al digitale. Abbiamo diviso anche i nostri contenuti in modo tematico (ad esempio i passaggi dedicati al 2 giugno, alla Festa della Liberazione), ma anche per contenuti multimediali come i podcast, dove è possibile ascoltare alcuni estratti dei diari letti da un narratore.

Qual è la differenza tra l’archivio digitale e quello cartaceo?

L’archivio digitale è una seconda porta d’accesso. La nostra sede è fatta per il pubblico degli “addetti ai lavori”, come gli studenti universitari che vengono qui a fare ricerca, mentre il sito è un modo per connettersi con il grande pubblico e uno strumento utile per gli insegnanti.

Come coltivate il rapporto con la cittadinanza e i visitatori?

Questo accreditamento dobbiamo guadagnarcelo tutti i giorni con la conservazione, la catalogazione e la digitalizzazione. Tutto ciò che viene pubblicato viene messo a disposizione di ognuno, previo controllo di una equipe e delle persone interessate. Un archivio è fatto di varie comunità: la prima è quella dei diaristi, che hanno stretto un patto con noi; poi c’è quella dei familiari. Nessuno può immaginare quante sono le persone che, dopo la scomparsa di un parente, continuano a considerare questo posto non solo come luogo della memoria, ma anche come luogo che ha dato una possibilità a quella persona. Avere un luogo che dà valore all’esperienza dei singoli è importante.

Un’idea più grande della vita: ognuno vive una sola volta, ma poi quello che racconta della propria storia biografica qui va al di là dell’esistenza del singolo.

Tutino la definisce “Comunicazione interumana”. Nel momento in cui lui vede arrivare in questo archivio neonato i primi testi, ha definito un vivaio, che non doveva essere fine a sé stesso, ma doveva trovare nel lettore un mediatore di eccellenza. Una figura che non solo legge, ma permette a quella storia di diventare un moltiplicatore di vite. È quello che facciamo anche nel Piccolo Museo: diamo la possibilità ad ogni storia di influenzare altre vite.

Quali sono stati i primi testi che hanno dimostrato a Tutino il potenziale dell’archivio?

Sicuramente quando lui si vede arrivare il Testamento di un erboraio, scritto alla fine dell’800 da Carlo Cibaldi, e contestualmente premia in quell’anno, il 1985, Antonella Federici, una ragazza 22enne di Bologna, che scrive le lettere mai spedite ai suoi genitori e al compagno in carcere, capisce il cortocircuito che c’è tra questi due mondi che non s’incontrano fuori ma possono incontrarsi qui. L’altro motivo sono i diari paralleli, ovvero quelle storie che nella vita reale non si sono mai incontrate, ma che hanno condiviso un luogo o un avvenimento.

Perché forniscono prospettive diverse su un medesimo evento o contesto storico?

Precisamente. Quella persona che era quel giorno alla stazione, la frequentava, e un’altra che passava di lì in un altro momento e non si sono mai incontrate. Un esempio che mi piace molto è quello del rapinatore di appartamenti e banche Claudio Foschini che nasce in una periferia di Roma, all’acquedotto Felice; e una signora di nome Giuseppina, che, negli anni in cui Claudio nasce, parte dall’Abruzzo come emigrante, è costretta a sposare un marito che non ama, e finisce per comprare un arco dell’acquedotto Felice a 80mila lire per farci la propria casa. Carlo ha un percorso tortuoso: carceri, malavita, fino poi a morire in una rapina, Giuseppina è un esempio di vita virtuosa. Lei ha sempre lavorato, ha fatto studiare i suoi figli. Tutti e due hanno condiviso uno spazio, probabilmente senza mai conoscersi, però ora convivono insieme in questo spazio.

Quali sono gli eventi e i periodi più raccontati nei diari?

Sicuramente le due Guerre Mondiali. È interessante perché il secolo passato è stato il primo in cui così tante persone comuni hanno sentito il bisogno di scrivere e raccontare quello che avevano visto e ciò che avevano vissuto. Ci sono stati grandi eventi che hanno costretto anche chi non riteneva importante la sua vita a partecipare a questo processo di “memoria collettiva”.

Qual è stato il grande lascito di Saverio Tutino?

Il fatto che ci abbia permesso di sbagliare. Lui ha cominciato a lasciarlo in mano a me e pochi altri ragazzi quando lui stava ancora bene e noi eravamo poco più che ventenni. Noi non ce ne rendevamo conto ma lui stava delegando, magari avrebbe avuto anche più successo guidandolo lui in prima persona, ma lui ha voluto farci immergere in questa situazione. Quando Saverio è venuto a mancare la gente veniva da noi a chiederci cosa ne sarebbe stato dell’archivio, e noi eravamo pronti a portarlo avanti come già facevamo da qualche anno. Questa, secondo me, è la responsabilità che dovrebbero avere tutte le istituzioni per garantire un progetto di crescita ma anche di ricambio generazionale.

Saverio Tutino
Saverio Tutino

C’è stato il passaggio del testimone. È stato semplice?

Assolutamente no. Negli anni ’90 Tutino ci mandò a parlare con l’editore Mursia, che lui conosceva personalmente. Noi siamo partiti con la “valigia di cartone”, piena delle nostre storie del cuore, fino a Milano. Gli spiegammo che volevamo il suo aiuto per pubblicarlo. Lui ci guardò con sguardo benevolo e un po’ di sufficienza e disse: “Ragazzi, tornate con il diario di Giulio Andreotti e io pubblico quello che volete”. All’epoca questa famosa agenda la volevano tutti. Sicuramente Saverio sarebbe riuscito a convincerlo, ma decise lo stesso di lasciare che fossimo noi a sporcarci le mani. Lui per noi è stato un maestro di vita.

A settembre si è svolto il 40° Premio Pieve. Quali sono i prossimi appuntamenti pubblici dell’Archivio?

Il 6 dicembre saremo a Roma alla fiera “Più libri, più liberi” diretta dalla scrittrice e matematica Chiara Valerio. Siamo molto contenti perché potremo parlare della nostra attività, della Valtiberina e dialogare sul tema della memoria con molti scrittori e appassionati. 

Siamo partiti dalle diecimila storie. Qual è la prima che ricorda di aver letto?

I primi due diari me li ricordo molto bene: uno è quello di Dan Rabà, un giovane che vive gli scontri politici nella Milano del 1974. Mia sorella, che già faceva la volontaria qui, mi portò delle fotocopie dei suoi quaderni perché nessuno riusciva a leggere la sua calligrafia. I suoi quaderni sono molto personali, intimi. La stessa depressione che lo ha accompagnato per tutta la vita ne alterava la scrittura. Mia sorella mi chiese consiglio e io mi sono immersa nella storia di questo giovane che parte da Israele, arriva a Milano, e si ritrova come capopopolo nelle contestazioni giovanili di un liceo milanese, poi lui si innamora di una ragazza che da il titolo ai suoi diari: Amo Antonietta. Lì ho cambiato completamente la mia idea sui diari. Da lì sono entrata nella commissione di lettura del Premio Pieve e lì mi sono imbattuta nella storia che mi ha fatto rimanere qui fino ad oggi: quella del rapinatore Claudio Foschini di cui si diceva prima. Ci trovammo di fronte a un manoscritto di 600 pagine senza un punto, con una storia che è un flusso di coscienza che arriva fino al 1991. La racconta dal punto di vista di un malvivente che non accetta di compiere omicidi o spaccio pur essendo egli stesso un tossicodipendente.

Una storia a metà tra un poliziesco e un film di Pasolini.  

Assolutamente, lui scrive di essere preoccupato per la nascita dei figli ma poi fugge dal carcere per andare in ospedale ad assistere alla nascita del suo primogenito. Una storia tanto umana quanto disperata. Ci sono le rivolte in carcere degli anni ’70, lui che recita l’Antigonein prigione. Lui non sa scrivere in italiano, è un romanaccio, ma tocca delle corde profonde. Il testo, intitolato Storie di una mala vita, vinse ex aequo il Premio Pieve nel 1992. Ci furono molti problemi e ritrosie nel premiarlo proprio perché Carlo Foschini era un eroe negativo.

E l’ultimo diario?

Filologicamente, l’ultimo che ho letto è quello del dottor Adriano Cascianini, uno storico medico della Valtiberina. Lui ha deciso recentemente di lasciarci le sue memorie, che raccontano il 1944, quando lui aveva 10 anni. Riguardano Pieve, il passaggio del fronte, i bombardamenti, lo sfollamento prima in Romagna e poi a Cinecittà.

Cosa lasciano queste storie in chi le legge?

Come lettore sei davvero preso in mezzo a un flusso. Io credo che queste storie abbiano la capacità di farci vivere meglio, perché ne esci trasformato, migliorato, con tanta curiosità ma anche fragilità in più. Ascoltare la vita degli altri acuisce una sensibilità che molti non sanno nemmeno di avere.

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