Sansepolcro: la storia del lebbrosario di San Lazzaro

Secondo la lapide affissa sulla struttura, vi si sarebbe fermato San Francesco. I lebbrosi non erano degli assistiti, ma membri di una comunità a carattere religioso

27 Luglio 2024
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Il lebbrosario di San Lazzaro a Sansepolcro

La storia che raccontiamo è quella del lebbrosario di San Lazzaro a Sansepolcro, che secoli addietro si trovava nella località chiamata Doglio, a circa un chilometro di distanza dal centro storico sul versante di Porta Romana. La descrizione relativa ai secoli XIII e XIV è principalmente affidata allo storico don Andrea Czortek, che ha raccolto preziosi e significativi documenti, a cominciare dalla ubicazione logistica. È una fetta di campagna nella quale gli insediamenti religiosi non mancano. Vicino al lebbrosario, infatti, vi sono il monastero clariano di Santa Maria della Strada, la chiesa di Gagnano (il plebato era quello di San Giustino, il distretto quello di Sansepolcro) e la chiesa di Sant’Abbondio dell’ordine gerosolimitano. Una parte di pianura e di bassa collina, fatta di insediamenti rurali con terreni coltivati anche a vigneto e con abbondanza di acqua.

Nella documentazione il luogo era indicato come “amalatia” o come ospedale e con il titolo di San Lazzaro, salvo il solo caso nel quale – è il 1336 – Paolo Graziani si qualifica come rettore e priore della chiesa o casa dei lebbrosi dei Santi Lazzaro e Madia Maddalena della “amalatia” di Doglio. L’ospedale è noto per l’episodio riportato in due fra le più antiche biografie di San Francesco: il “Memoriale in desiderio animae” di Tommaso da Celano (1247) e la “Legenda maior” di Bonaventura da Bagnoregio (1260-63). L’accoglienza dell’episodio nel “Memoriale”, redatta fra il 1228 e il 1229, è quasi certamente da mettere in relazione con il materiale inviato al ministro generale, Crescenzio da Jesi, consegnato poi a Tommaso. Dopo la “Legenda” di Bonaventura, il fatto è ripreso nel XIV secolo nelle “Considerazioni sulle stimmate”. Non vi sono accenni scritti sul nome del lebbrosario nel quale San Francesco si sarebbe fermato, ma a supporto della tesi sul lebbrosario di San Lazzaro vi è una tradizione locale che peraltro gli studiosi hanno ritenuto probabile. Il lebbrosario risulta tale a livello di documentazione fra il 1256 e il 1285, quando insomma esiste già da tempo e questo fa ipotizzare che sia sorto come una di quelle comunità di lebbrosi conviventi della quale si interessa il Concilio Lateranense III nel 1179.

Il primo documento scritto sull’esistenza del lebbrosario, indicato come “amalatia” e a Sansepolcro in località Doglio, è datato 8 luglio 1256. Eccolo: “In questo giorno prete Ranieri, rettore e custode della chiesa di Germagnano, et nunc electus in priorem et rectorem ecclesie et heremi de Monte Vicli, nomina Hondendeo, che fu rettore della amalatia de Dulio, per presentare in sua vece, per la dovuta conferma, al vescovo diocesano Pietro il documento della sua elezione da parte dei frati e conversi dell’eremo. L’atto è rogato in amalatia de Dulio”. Dopo che San Francesco era morto da trent’anni, il lebbrosario esistente è quello al quale si riferiscono le biografie e corrisponde al tragitto che il “serafico” potrebbe aver compiuto verso la valle del torrente Afra, dove è ubicato l’eremo di Montecasale, in direzione di Città di Castello.

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La lapide affissa all'esterno della struttura

I documenti lasciano pensare che il lebbrosario esistesse già da prima, quelli successivi al 1256 lo confermano, come allo stesso modo testimoniano che accoglievano lebbrosi o infetti e come il suo priore fosse autorevole. Stando a quanto è scritto sulla lapide posizionata sulla parete della piccola chiesa di San Lazzaro e datata 4 ottobre 1924, non vi sarebbero dubbi: “Francesco d’Assisi l’anno MCCXXIV (ovvero 1224 n.d.a.) sostò e pregò quando dal monte ove fu crocifisso con ferite di sangue d’amore fece ritorno alla città nativa. A soave commemorazione di quel soggiorno storicamente provato, nel settimo centenario della morte di lui i tardi nepoti questo marmo murarono…”. Chiaro quindi il riferimento alle stigmate, ricevute alla Verna nel 1224 e poi – come si può notare – si parla di soggiorno “storicamente provato”.

Relativamente al XIII secolo, non si conosce altro, ma le poche testimonianze sono comunque utili per rendere attendibile l’episodio narrato dalle biografie francescane di Tommaso da Celano e di Bonaventura da Bagnoregio. In base alle carte dei notai si ricavano le informazioni sulla struttura del lebbrosario; vi è una chiesa dedicata a San Lazzaro documentata almeno dal 1347 e nella quale Angela detta Ricciola, nel 1362, dispone che sia dipinta una immagine della beata Maria Vergine o di San Lazzaro per una spesa di 3 fiorini. Un lascito per l’acquisto di ceri per illuminare il corpo di Cristo sta a dimostrare che si celebrava la Santa Messa all’interno della chiesa.

C’è poi un portico: nel 1367, ad esempio, un pagamento viene effettuato nel distretto di Sansepolcro e il fatto che non si parli di “claustrum” fa pensare a uno spazio aperto verso l’esterno, appunto un portico d’ingresso. Il lebbrosario era composto da vari edifici: lo si ricava dalla datazione topica di un testamento del 1362 e anche i distinti riferimenti a maschi e femmine fanno pensare a una divisione dentro il lebbrosario, dove viveva una comunità mista composta di uomini e di donne, ma anche di malati e di sani. La struttura era retta da un priore, come confermato dagli atti: il primo priore è stato Hondendeo, poi Egidio nel periodo 1269-1285, Ranieri di Bencio fra il 1319 e il 1326. Dopo quest’ultimo, è priore Francesco di Pellegrino Bofolci, esponente di una delle maggiori famiglie di Sansepolcro, ma la stessa carica verrà poi ricoperta dal chierico Paolo, figlio del nobile uomo Carlo di Bono Graziani, in carica tra il 1336 e il 1338. Il 12 luglio 1336 Paolo, canonicamente eletto rettore e priore della chiesa o casa dei lebbrosi dei Santi Lazzaro e Maria Maddalena della amalatia di Doglio nel distretto di Sansepolcro, dichiara di non poter accedere alla chiesa se non con grave pericolo per sé stesso a motivo di alcuni ribelli, soprattutto de Petramalensibus, nemici della Chiesa romana.

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Porta di ingresso

Gli intrecci di interesse tra alcune delle maggiori famiglie di Sansepolcro suggeriscono di cercare la motivazione del loro coinvolgimento nella gestione del lebbrosario più che nel sentimento religioso, pure ormai ampiamente caratterizzato dall’esercizio di opere di misericordia in favore dei bisognosi. Il numero dei lebbrosi nel periodo compreso fra il 1317 e il 1338 è elevato: 43 persone, alle quali deve essere aggiunta una 44esima nel 1362; uguale la ripartizione, quindi 22 uomini e altrettante donne. Un’occhiata alla provenienza: 8 da fuori Sansepolcro e in particolare una donna dal distretto (Cignano), tre uomini e due donne da località dell’Alta Valle del Tevere comprese nel contado di Arezzo (Tizzano, Valle della Sovara, Montedoglio, Caprese, Rocca [Cignata]) e due uomini dal contado di Città di Castello (abbazia dei Botti e villa Signe, quest’ultima fuori Porta San Florido). Degli altri non si specifica la provenienza, per cui è probabile che siano di Sansepolcro. Un raggio ristretto, quindi, quello del lebbrosario di Doglio, anche perché strutture analoghe esistono nel vicinato, vedi Città di Castello. 

La vita nel lebbrosario

Per ciò che riguarda la vita all’interno del lebbrosario, i documenti in possesso evidenziano alcuni elementi caratterizzanti lo stato degli oblati: la povertà personale; il mantenimento da parte del lebbrosario, che garantisce sia il vitto che una somma annuale per le necessità personali; l’esercizio di funzioni collegiali da parte dei lebbrosi, che acconsentono all’accoglienza di nuovi membri, ma rinunciano a ricoprire cariche di governo. Elementi, questi, che mettono in luce l’assunzione di uno stato di vita semireligioso da parte degli “infecti”.

I lebbrosi, dunque, non sono degli assistiti, ma dei membri di una comunità a carattere religioso che vivono in obbedienza e in povertà, partecipando alla vita della comunità alla quale donano i propri beni e dalla quale ricevono sostentamento; manca l’assunzione di un abito. I beni fondiari di proprietà dell’ente sono concentrati nella zona a cavallo del torrente Afra, tra la contrada di San Lazzaro e la località di Gagnano. Nel 1329, il lebbrosario riceve in dono una casa nel castello di Parchiule, nella Massa Trabaria, ma della successiva gestione di questa casa non sono state riscontrate informazioni. Nel 1364 Giovanni, priore e rettore del luogo di San Lazzaro, affitta a Giovanni di Andrea di Negro un appezzamento di terra nel distretto di Sansepolcro, contrada di San Lazzaro, per un canone annuo di 9 salme di vino o di mosto e ad Angelo del fu Guardo un frantoio da guado con terreno attorno per un affitto di 6 fiorini.

Nello stesso anno, sempre il priore Giovanni affitta ai fratelli Angelo e Bartolo, figli di Venturino da Anghiari, un appezzamento di terra nella contrada di Gagnano, di circa 350 tavole e un altro appezzamento nella stessa contrada di circa 150 tavole. I lebbrosi vivevano in una condizione di povertà, ma disponevano di una piccola quantità di denaro personale: lo si ricava dai lasciti testamentari, che permettono di inserire la amalatia di Doglio nel contesto devozionale laicale. Non è raro, infatti, che uomini e donne inseriscano nei propri testamenti lasciti per il lebbrosario (ospedale, opera, chiesa) o, più frequentemente, per i lebbrosi.

Perduti i testamenti duecenteschi (salvo quello che risale al 1292), le prime attestazioni di lasciti che si conoscano rimontano al secondo decennio del XIV secolo e riguardano il pagamento di alcuni legati da parte della Fraternita di San Bartolomeo, il maggiore istituto caritativo del Borgo: nel 1312 sono pagati i legati di Guido di Aboca, tra cui 10 lire «a lebrosi de la malatia» e nel gennaio 1314, a seguito del testamento di Dianera de Grepio, la Fraternita consegna due coltri e due lenzuoli «a la malatia de Dolio».

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Altro scorcio del lebbrosario

Un anno senza dubbio complicato è il 1348, quando in estate si scatena la peste: il lebbrosario è destinatario di 21 lasciti e l’incidenza della peste sul piano demografico, sommata alle conseguenze anche economiche dei forti terremoti di fine 1352 e inizio 1353, sono all’origine della diminuzione dei lasciti negli anni ’50 del XIV secolo. In totale, i lasciti per il lebbrosario di Doglio contenuti nei testamenti rinvenuti tra le carte dei notai di Sansepolcro del XIV secolo sono 79, di cui 38 di uomini e 41 di donne. I lasciti sono normalmente in denaro, ma non mancano casi di fornitura di capi d’abbigliamento o di coltri e lenzuola, come per esempio nel caso di donna Elisabetta, figlia di Corrado de Blauselou de Alamania: una clamidem di lana color grana e foderata di seta bianca di 12 braccia. I benefattori del lebbrosario non mancano, ma non ce n’è uno che si distingue in particolare, cioè che dona un patrimonio consistente; anzi, i lasciti sono in genere di modesta entità, ora per il lebbrosario e ora per i lebbrosi, oppure solo per gli uomini e solo per le donne. Le offerte al lebbrosario arrivano anche da residenti di alcune località del distretto di Sansepolcro, in particolare nella valle dell’Afra, vicina alla località di Doglio, ma il lebbrosario è conosciuto anche oltre i confini del distretto e del plebato di Sansepolcro. Alcuni benefattori provengono dal vicinato, vedi dalla Massa Trabaria, da Parchiule e anche da Caprese.

Tante sono ancora le notizie che si potrebbero apprendere sul lebbrosario di San Lazzaro – come sostiene Andrea Czortek – ma in sede di conclusioni c’è da evidenziare come la comunità locale tenesse in considerazione i malati e i lasciti lo dimostrano; i lebbrosi sono annoverati fra i “pauperes Christi”, quindi come poveri e la documentazione del periodo evidenzia il fatto che l’uomo sia più propenso alla beneficenza che alla misericordia verso i “pauperes” malati. Anche gli atti di oblazione testimoniano che il lebbrosario di Doglio si configura come una vera e propria comunità religiosa, con a capo un priore (talora chierico) e composta da uomini e donne autodonatisi. Resta da approfondire la suddivisione interna della comunità, specialmente in ordine alla distinzione tra conversi e familiari e alle funzioni di questi due gruppi, mentre appare peculiare di questo gruppo religioso l’essere composto sia da uomini che da donne (cosa che a Sansepolcro si ritrova solamente in alcune confraternite, ad esempio in quella di San Bartolomeo).

La situazione cambia dalla fine del XIV secolo quando, nel 1392, il comune inserisce negli statuti, approvati due anni prima, l’obbligo di visita annuale sui due ospedali di San Niccolò e di San Lorenzo e sul lebbrosario di San Lazzaro, che diventano i principali enti ospedalieri e assistenziali tra i numerosi presenti a Sansepolcro. Un passo obbligato, che porterà nel XV secolo all’amministrazione della struttura da parte del Comune, in cogestione con la Fraternita di San Bartolomeo e con la Società delle Laudi di Santa Maria Novella.
 

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Abstract
Secondo la lapide affissa sulla struttura, vi si sarebbe fermato San Francesco. I lebbrosi non erano degli assistiti, ma membri di una comunità a carattere religioso